Trecento fantasmi di Natale nel mare di Capo Passero

Un tempo i «pistaroli» costituivano una piccola, agguerrita tribù all'interno del chiuso mondo del giornalismo italiano. Anche se sembrano passati secoli, si sta parlando solo di qualche decennio fa. L'epoca dei «pistaroli» ha come sfondo gli Anni Settanta e Ottanta, con il loro carico di stragi senza colpevoli, e di indagini poliziesche che per non sbagliare prendevano tre binari diversi (grigio, rosso, nero) e saltabeccavano tra un tribunale e l’altro. Fino ad insabbiarsi, alla fine, nei cassetti di qualche palazzo di giustizia. Tra i tanti «pistaroli» che onorarono il giornalismo italiano un nome almeno va ricordato, quello di Marco Nozza, firma eccellente de Il Giorno e grande memoria storica di tutte le trame, di tutte le deviazioni dei servizi segreti, di tutti i processi stragisti, da piazza Fontana in poi. Un giornalista, Nozza, affamato di verità e di memoria (non a caso firmò assieme a Montanelli saggi che sono eccellenti esempi di divulgazione storica). E, ancora prima di ogni altra cosa, uomo pieno di umanità: attento verso chiunque serbasse una storia da raccontare, un'ingiustizia con cui valesse la pena fare i conti. Mi è venuto in mente quella generazione di giornalisti, e Marco Nozza in particolare, leggendo le duecentoventi pagine del libro che Giovanni Maria Bellu, giornalista di «Repubblica», ha appena dedicato a I fantasmi di Portopalo. Ovvero - come ha avuto modo di raccontare ai lettori del suo giornale - la tragedia che vede morire, nel giorno di Natale del 1996, 300 clandestini davanti al mare di Capo Passero. A poche miglia dalle acque territoriali italiane. Il libro è percorso da un'inquietudine, da una rabbia, da una civile indignazione, che fanno da filo conduttore alle tappe dell'inchiesta su un naufragio a lungo ufficialmente negato. Un lavoro, quello di Bello, che per molti versi assomiglia a quello condotto un tempo dai «pistaroli». Infatti, anche qui ci sono dei morti innocenti: lungo le rotte delle «carrette del mare» che portano ogni anno sulle nostre coste migliaia di clandestini indotti ad un obbligato viaggio della speranza da guerre, carestie, apocalissi di ogni genere. Anche qui, nella storia raccontata da Bellu, ci si imbatte in una criminalità al servizio di cinici giochi geo-politici e di vertiginosi giri d'affari; feccia umana cresciuta nel succedersi delle guerre sporche e degli affari loschi (spesso le due cose formano, a ben guardarle, un tutt'unico) innervati sulle sponde del Mediterraneo. Gran pregio dell'inchiesta di Bellu non è solo, non è tanto l'umanissima compassione con cui ci porta, passo dopo passo, a ricostruire le vite e l'ultimo tragitto di alcune di quelle vittime che amnesie e rimorsi hanno ridotto a «ignoti naviganti».

Il miglior Bellu è il giornalista che va al sodo e ama i dati concreti. Nella sua inchiesta fa i conti in tasca ai grandi smistatori di disperazione che hanno portato in Italia decine di migliaia di disperati. Ad esempio quell’Ahmed Sheik Turab che si vanta di aver catapultato la metà di tutti i bangladeshi residenti a Roma è un signore tra le cui mani sono passati, in nove anni, dal 1987 al 1996, qualcosa come venticinque milioni di dollari. Investiti in cricket, belle amanti e pellegrinaggi devozionali offerti, in quel di Roma, alla sua consorte maltese. E Pavlo, il gran regista della traversata di quei quattrocento disperati che la notte di Natale del 1996 stavano approssimandosi verso la Sicilia, pensava di incassare una media di tremila dollari ciascuno. Da calcolare al netto di trasferimenti aerei, spese vive per i collaboratori locali e - voce tutt'altro che inconsistente - per «la corruzione delle dogane e della polizia» in diversi Paesi del Mediterraneo. L'inchiesta giornalistica di Bellu dà un nome e un volto ai protagonisti di una delle squadre che tirano le fila di parte della tragica transumanza di umanità che corre lungo il Mediterraneo: i Pavlo e i Turab, gli Zerboudakis e gli Yousseef El Hallal e i Khaled Ben Snoussi, compongono un puzzle di putridi affari, di silhouette malvagie e triviali al tempo stesso che neppure un Eric Ambler, il grandioso autore della luciferina narrazione de La Maschera di Dimitrios, avrebbe mai saputo inventare. Sullo sfondo rimangono i complici, le sordità istituzionali. Le omissioni interessate. Principale merito di Bellu è la testarda capacità di aderire ai luoghi, lasciarsi alle spalle la redazione per scarpinare e andare per mare e per terra a raccogliere testimonianze, trovare pezze d'appoggio ai racconti che si snodano; possibilmente guardando in faccia coloro - e non sono pochi - che chinano lo sguardo e negano l'evidenza. Il lavoro di Bellu è denso di rotte, di miglia, di porti, di nomi. E' un'inchiesta che ha riempito molti taccuini e rubato molte e molte ore di lavoro. Perché solo così può saltare fuori - inoppugnabile - quello che tutti sanno e nessuno dice. Perché ne I fantasmi di Portopalo c'è una variante, e non da poco, rispetto alle trame su cui lavoravano i «pistaroli» alla Nozza. Questi ultimi avevano a che fare con pochi, micidiali segreti spesso protetti, con professionale efficienza, da appositi apparati. Difesi con accanimento da un potere che utilizzava l'arte antica del frapporre omissis, del sottrarre testi, dell'imporre top secret alla defaticante marcia di avvicinamento che qualche coraggioso, qualche amante delle sfide, intraprendeva verso la verità. Qui, invece, attorno al naufragio che coinvolge centinaia di esistenze giunte dal Pakistan, dall'India, da Ceylon, c'è un segreto che tutti conoscono; almeno nel centro di Portopalo che s'affaccia sul mare del naufragio. Ci sono corpi che s'impigliano nelle reti dei pescherecci di una delle più importanti flotte da pesca della Sicilia. C'è la decisione, disumana, del silenzio, per non interrompere un'attività su cui vive un intero territorio. C'è, in parallelo, un istituzionale, vergognoso distogliere lo sguardo - in un ampliarsi di responsabilità che da Portopalo fila dritto a Siracusa, a Palermo e a Roma - da quanto è sotto gli occhi di tutti. E questo, forse, per non creare impigli all'Italietta che non vuole rimbrotti dall'Europa. Tutto questo non fa che rendere ancora più meritorio il coraggio di chi, dopo avere taciuto, finalmente parla. E fa tornare la verità a galla. Come quei morti, saliti dal profondo del mare.

gboatti@venus.it
Fonte: LaStampa.it il 23-10-2004 - Categoria: Cronaca

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