Se gli ecologisti dicono solo "NO"

I movimenti verdi sono in crisi dopo decenni di successi. Oggi predomina la sindrome "nimby" (not in my backyard)


Ambientalismo è un termine in uso soprattutto in Italia (paese prodigo più di variazioni linguistiche che di cambiamenti sostanziali) per designare culture e movimenti orientati alla salvaguardia degli equilibri ecologici del territorio o dell´intero pianeta. Poiché il termine ambiente ha anche connotazioni filosofiche, economiche e istituzionali, nelle altre lingue occidentali ricorrono più spesso, per designare lo stesso fenomeno, termini ricavati direttamente dalla parola ecologia.

L´ecologia come intuizione scientifica nasce nella seconda metà dell´Ottocento, anche se la visione della natura come un tutto organico dotato di un proprio equilibrio o l´esaltazione di una consonanza tra vita sana e ambienti incontaminati risalgono indefinitamente indietro nel tempo. Il termine, che ha la stessa radice (oikos, cioè casa, dimora) di economia, e che potrebbe o dovrebbe designare lo stesso oggetto, è stato introdotto nel 1868 dal biologo tedesco Haeckel; ha avuto i suoi primi sviluppi, come studio dell´interdipendenza tra i diversi organismi che popolano lo stesso habitat - e, in termini normativi, come prescrizione di non sconvolgerne l´equilibrio - nel corso della prima metà del secolo scorso, ed è esplosa, in tempi diversi, come movimento di tutela delle componenti non antropiche dell´ambiente (aria, acqua, suolo e vita organica) a partire dagli anni ‘70.

Il successo dell´ecologia nel corso degli ultimi decenni ne ha determinato l´articolazione e la diffusione in diversi ambiti, che si possono schematicamente suddividere così:

- un filone tecnico-scientifico: sicuramente il più fecondo, anche perché in esso è confluito il sapere di studi che l´avevano preceduto: quello - quasi del tutto ignoto in Italia, ma non così all´estero - legato ai movimenti di difesa del consumatore, teso all´analisi fisico-chimica e sanitaria dei cibi che ingeriamo e dei prodotti che consumiamo; e quello - assai sviluppato in Italia, anche grazie all´impegno del movimento sindacale - teso all´analisi, alla denuncia e alla negoziazione della nocività nei luoghi di lavoro.

In ogni caso, le competenze scientifiche sviluppate per impulso della cultura ambientalista costituiscono oggi una componente crescente del patrimonio scientifico dell´umanità e uno dei baluardi più solidi, perché ineludibile, contro la disinvoltura con cui industria e governi di tutto il mondo marciano a braccetto verso la devastazione del pianeta;

- un filone associazionista, fatto da migliaia di comitati locali, ma anche di potenti organizzazioni internazionali, che nascono, crescono e si diffondono non solo nel Nord ricco e "sazio" del pianeta, che per la retorica becera dell´industrialismo è l´unico a potersi "permettere il lusso" di badare all´ambiente invece che allo "sviluppo"; ma anche e soprattutto nei paesi più poveri, dove la difesa dell´ambiente - una foresta, un fiume, una laguna, una sorgente, una coltura tradizionale o un territorio - rappresentano le condizioni stesse di sopravvivenza di una comunità, legando così in modo chiaro e indissolubile ambientalismo e diritti umani;

- un filone politico: cioè i partiti verdi dei paesi occidentali, nati per lo più, sul modello dei Grünen tedeschi, da una costola delle associazioni ambientaliste, ma cresciuti e alimentati dalla leva dei militanti messi "in libertà" dalla crisi dei gruppuscoli del Sessantotto.

La fortuna di questi raggruppamenti è stata diversa a seconda della consistenza del sapere tecnico scientifico di cui si alimentano, che è la base irrinunciabile di qualsiasi elaborazione strategica. Proprio per questo, probabilmente, la stentata vicenda dei verdi italiani - senza disconoscerne gli indubbi meriti - è emblematica tanto di una sostanziale carenza di elaborazione quanto di una particolare esposizione agli aspetti più deteriori della politica: carrierismo, clientelismo, lottizzazione, opportunismo;

- un filone istituzionale, rappresentato dalla nascita e dalla sviluppo di una diplomazia specializzata nella gestione dei molti trattati, "protocolli" convenzioni ambientali (quella che ha dato vita al vertice mondiale di Rio de Janeiro del 1992 e alle sue molte propaggini); ma soprattutto dalla creazione di ministeri dell´Ambiente in quasi tutti i paesi del mondo, grazie anche all´opera di institutional building che accompagna quasi tutti i programmi di cooperazione allo sviluppo.

Proprio quest´ultima articolazione, unitamente alla proliferazione degli assessorati all´ambiente in ambito regionale, provinciale e comunale – apparentemente il maggior successo dell´ambientalismo, almeno nella visione di molti dei suoi rappresentanti – è stata la causa, o la manifestazione più rilevante, di un processo di messa nell´angolo della cultura ambientalista.

I ministeri dell´Ambiente, inizialmente concepiti come istituzioni "trasversali" a supporto delle politiche promosse dagli altri ministeri, si sono trasformati in ghetti dove si programmano e si gestiscono gli interventi end-of-pipe, cioè di "fine-ciclo", per ripulire l´ambiente o mitigare i danni delle politiche gestite dai ministeri che "contano": industria, trasporti, infrastrutture, turismo, economia, finanze, attività produttive, ecc.

Lo stesso accade per le sezioni ambiente dei programmi politici di partiti e coalizioni (compreso quello recentissimo dell´Unione). Cioè: gestione dei rifiuti (del consumo e della produzione), delle emissioni, degli scarichi, degli inquinamenti, dei dissesti del territorio: senza nessuna possibilità di intervenire "a monte"; cioè là dove quelle politiche vengono concepite, programmate o - caso sempre più frequente - soltanto legittimate in seguito ai diktat di qualche multinazionale o del cosiddetto "mercato".

Con la conseguenza di esporre, non certo i ministeri dell´ambiente, fin troppo acquiescenti ai diktat dei relativi governi, ma coloro che hanno accettato di ridurre la tutela dell´ambiente a politica "settoriale", alla giusta accusa di promuovere sempre e solo una politica dei no: no al ponte, no alla Tav, no alla variante di valico, no all´inceneritore, no alla "bretella", no agli Ogm, ecc.

L´ambientalismo o, se vogliamo, l´ecologia, non era e non doveva essere questo: è e non può che essere una proposta organica, ancorché flessibile nel tempo e articolata a livello locale, di riconversione alla sostenibilità (che vuol dire "capacità di durare", a fronte dei limiti naturali imposti dalle caratteristiche del pianeta Terra) del sistema produttivo e degli stili di vita che lo alimentano e lo riproducono.

Non una politica dei No, facile bersaglio degli incompetenti columnist dell´ultima ora, per i quali la deplorazione della cosiddetta sindrome Nimby (non nel mio cortile) è un alibi per non entrare nel merito e non studiare le ragioni delle opere che sponsorizzano; e nemmeno una politica esclusivamente prescrittiva: il cosiddetto command and control, bersaglio altrettanto di comodo dei liberisti dell´Economist e dei loro infiniti emuli, per i quali non può essere che il mercato a "prendersi cura" e a guarire un ambiente malato.

E´ ora di ridistribuire le carte e rimettere ciascuno al suo posto, in modo da non lasciare chi si batte per l´interesse generale rappresentato dalla salvaguardia di un territorio a combattere da solo contro poteri forti, interessi costituiti e interessi costituiti.

E di mostrare che l´ambientalismo è un programma organico di riconversione produttiva e sociale, mentre i veri promotori della politica dei No sono le multinazionali, le associazioni imprenditoriali, gli organismi multilaterali come il Wto e la Banca Mondiale e i governi che le assecondano: No alle clausole sociali (libertà sindacale nelle dittature mete privilegiate dei loro investimenti, tutela dell´infanzia dal lavoro minorile, sicurezza sui luoghi di lavoro) e ambientali (protezione delle foreste, dei fiumi, degli estuari, della biodiversità); No alla pianificazione urbanistica, all´edilizia popolare, alla negoziazione sociale; No alle valutazioni (vere) di impatto ambientale (via), alla carbon tax, alla penalizzazione delle emissioni inquinanti; No alla tariffazione degli accessi in città, alla pedonalizzazione delle aree di pregio, alla produzione di veicoli economici e sicuri.
E via bloccando.

Guido Viale
sociologo industriale
Fonte: La Repubblica il 13-12-2005 - Categoria: Cronaca

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