Quella notte di Natale del 1996 c'era un gran freddo.

PORTOPALO - Quella notte di Natale del 1996 c'era un gran freddo. E pioggia. E vento. Ormai da 5 giorni nessun pescatore aveva l'ardire di spingere a largo la sua barca. E' un mare difficile, quello che separa la Sicilia dall'Africa, correnti e fondali profondi. Nord 36, 25',32"; est 14, 54', 34", acque internazionali, 19 miglia da Portopalo di Capopassero: una complessa manovra, tra la motonave battente bandiera libanese "Yohan" e una carretta del mare, si trasforma in tragedia. Tra la schiuma e la pioggia, circa 450 clandestini, in gran parte cingalesi, vengono costretti a salire su quella barchetta instabile, schiaffeggiata dalle onde. Ma è impossibile, la piccola barca, troppo carica, non riesce a reggere il mare in tempesta, rischia di affondare. E allora si torna indietro, virata di 180°, per restituire il carico umano, bagnato e infreddolito nei suoi stracci, alla Yohan. Nessuno saprà mai cosa accadde esattamente in quei momenti: l'unica certezza che abbiamo è ancora oggi sotto il mare, 19 miglia a largo di Portopalo, 108 metri di profondità: 283 morti, forse 289.
Il 30 dicembre dello stesso anno i 175 superstiti vengono abbandonati sulle spiagge di Salonicco: ai soccorritori racconteranno una storia terribile, ma nessuno di loro sarà creduto. Fino al giugno del 2001, quando Salvatore Lupo, comandante di uno dei 170 pescherecci che affollano il piccolo molo di Portopalo, troverà nelle sue reti un grido che non è possibile ignorare: Anpalagan Ganeshu, 17 anni, cittadinanza cingalese, etnia tamil: la sua carta d'identità diventa la prova del naufragio fantasma.


Si rompe l'omertà
Incontriamo Salvatore Lupo su una signorile nave turistica che, a prezzi modici, offre un giro di boa attorno alla magnifica punta meridionale della Sicilia. E' un piccolo uomo robusto e forte, dal suo sguardo emerge con timida chiarezza la sua storia: trent'anni passati su un piccolo peschereccio, in un lavoro più duro che ricco. Oggi Salvatore Lupo è un uomo solo, per i suoi compaesani è l'autore di una delazione che non può essere perdonata. E' lui, solo lui, ad aver attirato sul piccolo paese gli occhi sconcertati dell'opinione pubblica. «Quando trovai la carta d'identità tra le reti, pensai che era venuto il momento di farla finita col silenzio». Perché a Portopalo tutti sapevano: già da mesi emergevano ossa, piccoli oggetti, segni di una vita drammaticamente interrotta, a pochi chilometri dalla terra promessa. E quei pescatori che, ignari di tutto, denunciarono per primi il ritrovamento di un cadavere tra le reti, furono costretti dall'autorità giudiziaria a fermare il proprio lavoro per settimane. Senza che nessuno si impegnasse, finalmente, 4 anni dopo la tragedia, in un'accurata ricerca del relitto. Qualcuno voleva che nulla si sapesse? Salvatore Lupo fa intendere di sì: «Mi fu consigliato vivamente di lasciar perdere, di ributtare quel piccolo documento in acqua. Per questo decisi di portare la notizia a Giovanni Maria Bellu, fino a Roma, nella sede de la Repubblica». Un errore imperdonabile...

Salvatore Lupo preferisce non parlare. Ormai è in pensione, ha venduto da un anno il suo peschereccio, e arrotonda con qualche piccolo lavoro stagionale. Come questo, in giro tra lo Ionio e il Canale di Sicilia, tra Marzamemi e l'Isola delle Correnti. Proprio lui, un navigatore esperto, l'unico in grado di trovare, con straordinaria precisione, il luogo della tragedia. «Dopo giorni di ricerche, i carabinieri vennero a casa mia, e mi portarono con loro, alla caccia del relitto. La loro navigazione a largo di Portopalo era infruttuosa».

Oggi Salvatore Lupo è un uomo solo: ci vuole poco perché un eroe diventi un fantasma. Troppi nemici, a partire dall'amministrazione comunale, nella quale An gioca un ruolo di primo piano, fino al corrispondente locale de La Sicilia, Sergio Taccone, fratello del vicesindaco, troppo zelante nel presentarci con tono aspramente infastidito e dubbioso la figura di Lupo. Fino a Rocco Giudice, caporedattore di Colophon, tutti impegnati, patriotticamente, a difendere l'immacolato candore della propria terra, anche quando è macchiata di sangue. Luoghi comuni, per loro. E la memoria torna a Sebastiano Falbo e Katia Scollo, residenti a Pachino, a pochi chilometri da Capopassero, accusati nel 1999 di far da basisti per il traffico di clandestini. Un provvedimento di custodia giunto in carcere, dove i due conviventi erano in attesa di giudizio. Facevano parte di una banda dedita al racket: sotto il costume di guardiani, vecchio archetipo della criminalità mafiosa, chiedevano il pizzo ai pescatori del porto di Portopalo, in stretto collegamento con i catanesi cursoti e con la mafia di Noto.

Chi avrà consigliato a Lupo di tacere?


Il processo
Il 21 ottobre di quest'anno si aprirà il dibattimento del processo che accusa Turab Ahmed Sheik, 43 anni, pakistano e El Hallal Youssef, 46 anni, libanese, di omicidio plurimo volontario. I due imputati, ambedue estradati in Italia e poi, con un'assurda ordinanza del Tribunale di Siracusa, in aperto contrasto con le richieste del Pm, liberati il 6 maggio del 2001, sono il basista e il comandante della nave, la Yohan: due tra i responsabili della strage del Natale del 1996. La tragedia fantasma, forse, sarà ricostruita nei suoi minimi particolari, l'ennesima strage, forse, non rimarrà senza colpevole. Ma pesanti dubbi si insinuano tra le carte di un procedimento che ha una storia lunga e complessa e un esito incerto.

Su segnalazione della capitaneria di porto di Portopalo e in seguito al sequestro della Yohan, rinvenuta, due mesi dopo la tragedia, nelle acque del porto di Reggio Calabria, la Procura della Repubblica apre un'inchiesta che si conclude, nella primavera del 2001, col rinvio a giudizio di 13 persone per omicidio colposo, associazione a delinquere finalizzata all'immigrazione clandestina, disastro colposo. Basisti, collaboratori e marinai: l'intera organizzazione di quel maledetto viaggio viene investita dal procedimento, grazie al prezioso aiuto delle testimonianze dei 175 superstiti e dei loro familiari, in gran parte sparsi in paesi dell'Europa centrale e settentrionale. Poco dopo, il prezioso lavoro di Bellu e Lupo. «Il ritrovamento del relitto, conferma probatoria degli elementi testimoniali, segnò anche una necessaria interruzione del procedimento: il naufragio, avvenuto in acque internazionali e gli imputati, tutti stranieri, diventano, da un momento all'altro, non perseguibili», spiega Ezechia Paolo Reale, avvocato di parte civile, per conto delle associazioni dei familiari delle vittime della strage del '96. Nasce, in questo momento, un complesso problema di giurisdizione, che investe appieno i limiti e le deficienze del diritto internazionale. «La giurisprudenza parla di Giurisdizione Universale - precisa l'avvocato Reale - quando, anche se avvenuto in territorio non nazionale, la gravità dei reati permette alla magistratura di un paese di intervenire al di fuori dei propri confini. L'unico vincolo è rappresentato dalla Richiesta di Procedimento, che il ministero di Grazia e Giustizia può, a discrezione, concedere».

Dinanzi alla richiesta della Procura, il Ministero, dopo 8 lunghi mesi, concede l'autorizzazione a procedere solo per 2 dei 13 imputati (Sheik e Youssef) e solo per il reato di omicidio volontario plurimo. L'otto luglio di quest'anno, finalmente, il Gip decide per il rinvio a giudizio: il 21 ottobre, davanti alla corte d'assise, il Pm Roberto Campisi, Procuratore capo, ricorderà che la tragedia fantasma è realmente avvenuta, luoghi, date, nomi e cognomi dei responsabili.


Ingiustizia è fatta
Ma è un processo che nasce mutilato, quello del 21 ottobre. Sheik, con tutta probabilità, sarà assolto: il basista non ha nessun ruolo nella dinamica della tragedia, non può essere accusato di aver costretto i 300 clandestini ad un folle trasferimento, né di aver speronato la carretta. E Yousseuf, di certo, dinanzi ad un probabile ergastolo avrà il buon senso di rendersi latitante. Nonostante ci siano i dati per colpire tutta l'organizzazione criminale che organizzò quel viaggio, la miope risposta del Ministero non consente il procedimento. Sarà il ministro Castelli, in opposizione ai suoi stessi proclami, a bloccare un procedimento contro gli scafisti. E nessuno, forse, parlerà delle gravissime omissioni di Capitaneria di Porto, Guardia di Finanza, dello stesso tribunale siracusano: 300 morti sotto il mare, per 5 anni, senza alcuna ricerca, mentre tutti sapevano. D'altro canto, a Lupo, come ai pescatori di cadaveri, fu consigliato di ributtare tutto a mare. Da chi, e per quale motivo? Forse mai nessuna risposta a questa domanda.

Il processo del prossimo ottobre sarà, forse, solo un inutile risarcimento morale per i familiari delle vittime. Come a dimostrare, contro ogni prova, che esiste, per chi scappa dalla propria terra, senza identità e senza un soldo in tasca, una qualche giustizia. Ma vera giustizia sarà fatta, a Portopalo di Capopassero, nel canale di Sicilia, solo quando tutti i siciliani, tutti gli italiani, sapranno, comprenderanno, discuteranno, di cosa è successo in quel Natale del '96 e nei cinque anni seguenti. Solo se il processo del prossimo ottobre riuscirà ad imboccare i due binari, oggi morti, che, soli, porterebbero ad una vera verità: colpire realmente, al di là dei folli vincoli del diritto internazionale, i responsabili di questi viaggi della morte; colpire chi, nel civilissimo nord del mondo, a un passo dalla terra di nessuno, lascia marcire trecento, tre mila cadaveri nel mare pescoso e limpido di Portopalo.

Manuele Bonaccorsi
con la collaborazione
di Andrea D'Urso
Fonte: Liberazione.it il 10-08-2003 - Categoria: Cronaca

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Il naufrago Giovanni Pascoli


Il mare, al buio, fu cattivo. Urlava
sotto gli chiocchi della folgore! Ora
qua e là in rosa la sua bava.

Intorno a mucchi d'alga ora si dora
la bava sua lungi da lui. S'effonde
l'alito salso alla novella aurora.

Vengono e vanno in sussurro l'onde.
Sembra che l'una l'altra salga
per veder medglio. E chiede una,risponde

l'altra ,spiando tra quei mucchi d'alga...


-Chi è? . Chi sei? Che fai? Più nulla.
Dorme ? Non s.Si:non si muove. E il mare
perennemente avanti lui si culla.

Noi gli occhi aperti ti baciamo ignare.
Che guardi? Il vento ti spezzò la nave?
Il vento vano che,si,è, né pare?

E tu chi sei ? Noi, quasi miti schiave,
moviamo insieme, noi moriamo insieme
costì con un rammarichìo soave...

Siamo onde, onda che canta, onda che geme...


Tu guardi triste. E dunque tua forse era
la voce che parea maledicesse
nell'alta notte in mezzo alla bufera!

Non siamo onde superbe, onde sommesse.
Onde ,e non più. L'acqua del mare è tanta!
Siamo in un attimo, e non mai le stesse.

Ora io son quella che già là s'è franta.
Ed io già quella c'ora la si frange.
L'onda che geme ora è lassù, che canta;

l'onda che ride ,ai piedi tuoi già piange.

Noi siamo quello che sei tu: non siamo.
L'ombre del moto siamo. E ci son onde
anche tra voi, figli del rosso Adamo?

non sono. E' il vento ch'agita confonde,
mesce ,alza,abbassa; è il vento che ci schiaccia
contro gli scogli e rotola alle sponde.

Pace! Pace! E' tornata la bonaccia.
Pace! E' tornata la serenità.
Tu dormi, e par che in sogno apra le braccia.

Onde! Onde! Onda che viene, onda che va...


Giovanni Pascoli (Poeta italiano)