Non c’è democrazia senza informazione. Non c’è futuro senza verità

Non c’è democrazia senza informazione. Non c’è futuro senza verità di Stefano Corradino

Una denuncia forte e ostinata contro la guerra e il racconto drammatico di un rapimento che lascia il segno. Una ferita profonda. Difficile da rimarginare. Questo è il libro di Giuliana Sgrena “Fuoco Amico” che viene presentato oggi lunedì 21 novembre alle ore 18 a Roma presso la libreria Feltrinelli, Galleria Colonna. Non un diario di prigionia ma il racconto sofferto di un’esperienza, importante e tragica al tempo stesso in mezzo alla disperazione di un popolo, martoriato dall’embargo e dall’occupazione. E dalle case ricoperte di quella “polverina bianca (il fosforo bianco, ndr) che gli stessi militari americani raccomandavano di disinfestare…”

L’inchiesta di Sigfrido Ranucci su Rainews24 ha svelato che, nel corso dei bombardamenti, sono state utilizzate armi chimiche devastanti. Ora arrivano le conferme. E’ uno degli argomenti del tuo libro…
La notizia era già stata pubblicata da alcune riviste militari americane. L’inchiesta di Rainews24 e le conferme di questi giorni rappresenta un passo in più verso la verità: quella delle armi proibite che finora il Pentagono cercava di accreditare come strumenti da utilizzare solo per illuminare e non per colpire civili. Invece i civili sono stati colpiti. Basta vedere dal video di Rainews24 come sono ridotti i cadaveri per convincersi che non sono state usate armi convenzionali ma armi chimiche.
La cosa più paradossale è che Bush sia andato in Iraq con il pretesto di trovare armi chimiche (che non c’erano) e sia stato proprio lui e il suo esercito ad usare quelle stesse armi contro la popolazione civile irachena.

Se non sbaglio è proprio sulle armi chimiche che tu stavi indagando nei giorni che hanno preceduto il tuo rapimento.
E’ così. La mattina stessa in cui sono stata rapita ero insieme ai profughi di Falluja che erano radunati intorno ad una moschea dell’università di Baghdad, proprio per sapere qualcosa di più. Alcune notizie le avevo avute a Falluja, già nell’aprile del 2003: persone che erano andate a cercare i loro familiari che stavano combattendo all’aeroporto di Baghdad avevano trovato cadaveri carbonizzati. Lì era nato il primo sospetto che fosse stato usato il napalm.

Il Pentagono aveva risposto che non si trattava del napalm usato in Vietnam ma di un nuovo “agente” chiamato in codice MK77.
Il che non cambia la sostanza delle cose. E poi c’è la questione del fosforo bianco. In molti a Falluja mi hanno detto che tornando a casa trovarono le case coperte da una polvere bianca. E i militari dissero loro di non entrare assolutamente in casa se non dopo aver accuratamente disinfestato tutto con uno speciale detersivo. Ad una di queste abitanti erano scoppiate improvvisamente le vene…

Ci sono tanti modi per raccontare una guerra. Si può andare al seguito dei militari o chiudersi in un albergo nella città dove si combatte. Tu eri nel fronte di guerra.
Io ero convinta che bisognava andare lì per documentare tutto quello che stava accadendo. Dal mio punto di vista, personale e professionale, fare il giornalista non può significare nè andare embedded a seguito delle truppe perché si ha solo una “prospettiva militare” né restare chiusi in albergo.

Per informare e testimoniare la verità bisogna quindi rischiare la vita?
Questa vicenda mi ha fatto prendere coscienza del fatto che adesso fare questo mestiere, come lo intendo io, è praticamente impossibile. Tutti quelli che sono coinvolti nella guerra (americani compresi) non vogliono testimoni.

Hai intitolato il tuo libro “Fuoco amico”. Una titolazione che sicuramente ha più di un significato…
Un significato “doppio”. E un paradosso: gli alleati americani hanno sparato su una macchina degli italiani dove c’erano agenti dell’intelligence e hanno ucciso Nicola Calipari, che probabilmente era uno dei migliori agenti italiani. E al tempo stesso io, giornalista contro la guerra, ero stata rapita da quelli che dicevano di lottare contro l’occupazione. Se tutto questo non è un drammatico paradosso… Un fuoco amico che mi ha colpito due volte…

Tu sei stata più volte in Iraq ed ogni volta hai fotografato una situazione che hai descritto come peggiore. Nel frattempo c’è stata la caduta di Saddam, le elezioni e l’avvio, almeno sulla carta, di un nuovo processo di democratizzazione. E’ così?
Francamente mi sembra assurdo che si possa passare di processo di democratizzazione quando l’informazione viene negata, perché la libera informazione dovrebbe essere alla base della democrazia. Per il resto è vero che ho trovato una realtà di volta in volta peggiore. E adesso la situazione è davvero insostenibile per gli iracheni: dopo due anni e mezzo di occupazione a Baghdad e nel resto dell’Iraq c’è l’elettricità per non più di quattro ore al giorno. E se non c’è elettricità manca di conseguenza anche l’acqua che si preleva dai fiumi per poi essere depurata e distribuita con le pompe.
E non c’è sicurezza. Gli occupanti sono preoccupati solo di garantire la propria sicurezza e non quella degli occupati. E poi c’è il terrorismo, che vuole solo mantenere il disordine e se ne frega di liberare l’Iraq. Il terrorismo – che va ovviamente distinto dalla resistenza - aumenta le destabilizzazioni con azioni tipo autobombe o kamikaze che, tra l’altro, colpiscono sostanzialmente gli stessi iracheni e non le forze di occupazione. .

C’è una domanda che ricorre ripetutamente nel tuo libro. Ti domandi perché io? “Perchè rapire me che sono una giornalista che si è sempre, apertamente, schierata contro la guerra”. Ti sei data una risposta?
Non mi sono data una risposta fino in fondo. Certo, il pericolo di un rapimento, in una condizione così difficile l’avevo anche messo in conto. E così quando sono stata rapita ho cercato per prima cosa di capire se i miei sequestratori fossero terroristi, religiosi o delinquenti comuni. Perché anche da questo dipendeva la mia sorte. Ho capito subito che erano molto politicizzati e a maggior ragione continuavo a chiedermi “perché io”. La prima settimana di sequestro per loro potevo essere una spia. Poi hanno scoperto chi ero. E allora ho chiesto loro: “allora perché mi tenete qui?”
”Questa è la guerra” – mi hanno risposto. “Chiunque entra nel nostro paese in questo momento entra in guerra e ne paga le conseguenze…”

Durante la tua prigionia sono state centinaia le manifestazioni di solidarietà e gli appelli lanciati da più parti per chiedere la tua liberazione. Che percezione avevi di quello che stava succedendo in Italia? E quando sei tornata in Italia ti sei stupita nello scoprire quale mobilitazione c’era stata?
Io avevo notizie parziali dai miei sequestratori. Ma non avevo idea di quanto grande e fantastica fosse stata quella mobilitazione che al mio ritorno ho ricostruito passo dopo passo. Una mobilitazione a due facce: “personale” perché fatta anche da gente che voleva la mia liberazione e non aveva mai partecipato a cortei ma anche fortemente “politica”, promossa da chi aveva già manifestato altre volte contro la guerra e non aveva più avuto l’occasione di farlo. Penso allora che questa gente adesso debba dimostrare il suo impegno civile per chiedere la verità su quello che è successo a Baghdad la notte del mio rilascio e della morte di Nicola Calipari. Perché c’è chi vorrebbe mettere tutto a tacere. E bisogna impedire che gli americani possano continuare ad agire nella più totale impunità.
Fonte: Articolo21.info il 21-11-2005 - Categoria: Cronaca

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