Naufragio di Natale '96: la memoria non si cancella

Avete provato a mettervi dalla parte di chi cerca di arrivare clandestinamente via mare nella fortezza Europa? Dino Frisullo l'ha fatto. Il dossier che ricostruisce la tragedia del naufragio avvenuto nel canale di Sicilia il 26 dicembre 1996...

Avete provato a mettervi dalla parte di chi cerca di arrivare clandestinamente via mare nella fortezza Europa? Dino Frisullo l'ha fatto. Il dossier che ricostruisce la tragedia del naufragio avvenuto nel canale di Sicilia il 26 dicembre 1996, da lui scritto e costato mesi di indagini "parallele", pubblicato sul numero 9/'97 di Narcomafie, dà voce a chi ha rischiato la vita e parla, fa i nomi di trafficanti turchi, greci, maltesi, asiatici, e delle coperture che godono da parte di autorità portuali greche, turche, italiane, chiedendo di portarli in giudizio e restituire un po' di giustizia alle vittime. Possiamo vedere quasi quelle persone, quei ragazzi, chiusi nella stiva della F 174; sui loro volti ansia, paura. Il legno maltese, che sta portando il suo sovrabbondante carico umano verso l'Europa, verso una vita migliore, verso la salvezza, si è fermato, imbarca acqua da ore. Ad un certo punto, nel buio, si sente un terribile tonfo, tutto si sposta all'interno della stiva; il buio rende l'ansia ancora più forte, ciascuno tende l'orecchio per sentire qualche parola nella sua lingua, punjabi, tamil, urdu. Un vorticoso tuffo alla bocca dello stomaco: il battello è stata speronato, sta colando a picco, e così velocemente da non lasciare neanche il tempo di chiedere perdono ciascuno al proprio Dio.


D'improvviso realizziamo cosa deve aver spinto Dino a occuparsi così tenacemente di questa vicenda. Sì, perché si potrebbe dire: ma ormai sono passati tanti anni, succedono tante cose, tanti altri naufragi continuano a ripetersi; perché ostinarsi a voler parlare di una tragedia certo grave, ma ormai lontana, a chi potrebbe interessare? La memoria, ed in particolare la memoria delle vittime, di quelle 283 vittime tamil, indiane, pakistane, è preziosa e non può essere strumentalizzata, né da destra né da sinistra: ma di questo naufragio si è a lungo negata perfino l'esistenza. Dino aveva scelto di guardare questa vicenda con i loro occhi, con gli occhi di chi subisce la creazione dell'Europa-fortezza, che si chiude ai profughi ed ai migranti, proprio mentre oggi con la logica della guerra permanente ne alimenta i flussi. E questa negazione non poteva che far crescere la sua ostinazione, che lo ha portato a cercare ed annotare con precisione preziose informazioni sui trafficanti di esseri umani e sulle coperture istituzionali che li proteggono anche in Turchia, durante i viaggi ad Istanbul e in Kurdistan come osservatore della guerra sporca del governo turco contro il popolo kurdo (e che nel '98 gli costarono il carcere e un processo per "incitazione all'odio razziale"!), ci lascia una pesante eredità. Insieme ai parenti delle vittime, e alle associazioni siciliane, la battaglia oggi non può che essere quella per il recupero del relitto e delle salme dei naufraghi, ma anche perché la Sicilia e l'Italia siano più accoglienti verso chi vi approda. Al posto di nuove inutili colate di cemento, pericolose basi NATO e centri di detenzione per chi ha commesso l'unico crimine di non aver aspettato un impossibile ingresso regolare in Italia, la memoria di quella tragedia doveva essere nelle sue intenzioni un monito per cambiare rotta e superare le politiche di chiusura, già sperimentate con la legge sull'immigrazione del centrosinistra e la creazione dei CPT, e perfezionate con la legge sull'immigrazione del centrodestra, condita da inviti a "cannoneggiare le navi dei clandestini". La coltre di ipocrisia che una parte del centrodestra si prepara a stendere attraverso la presentazione di una proposta di legge "specchietto per le allodole" sul diritto di voto ai cittadini stranieri, non può essere stesa sulla realtà di una crescente precarizzazione dei permessi dei soggiorno.


Il processo che dovrebbe accertare le responsabilità del naufragio, attualmente in corso a Siracusa, è ormai alla deriva.e non solo in senso figurato! Il naufragio è avvenuto in acque internazionali, non c'è da accertare - come nel caso della Kater I Rades carica di albanesi, speronata e affondata dalla corvetta militare italiana Sibilla durante una manovra di harassment,- una responsabilità diretta delle istituzioni italiane: l'ignavia e l'ipocrisia istituzionale dovrebbero avere un loro spazio in un ipotetico codice penale popolare. Dopo che già nelle scorse udienze la Francia aveva negato l'estradizione del capitano della Yohan, il libanese Youssuf El Hallal, la sua posizione è stata definitivamente derubricata dal dibattimento, e ora El Hallal non è più neanche ricercato. Rimane un unico altro imputato, il "Mister Tony" conosciuto anche dalle parti di piazza Vittorio a Roma: pakistano, basista e armatore della Yohan oggi residente a Malta, è a piede libero. Ai parenti delle vittime e all'associazione Senzaconfine non resta che costituirsi parte civile in un dibattimento che non ha alcuna speranza di fare giustizia: il relitto non è neanche sotto sequestro, come se esso - spezzato in tre tronconi a causa dello speronamento da parte della Yohan - non fosse stato giudicato dalla Procura una prova a sostegno della tesi dell'accusa, e cioè omicidio volontario.


Non erano tutti chiusi nella stiva della F 174 i migranti a bordo: alcuni erano sul ponte di questa carretta del mare, sovraccarica fino all'inverosimile. Ventinove di loro, aggrappandosi alle tre corde gettate in loro soccorso da altri passeggeri della nave assassina, la Yohan, insieme ai quali avevano fatto un pezzo di viaggio, riuscirono a sfuggire all'orrore. Ventinove scampati al gorgo che aveva inghiottito i loro compagni di sventura, oltre ai "traghettatori". Furono essi ad avvertire della tragedia, una volta che la Yohan comandata da El Hallal, allontanatasi dal luogo dello speronamento senza dare l'allarme, li sbarcò su un'isola della costa greca, cercando di assicurarsene il silenzio. Una volta lasciati andare, furono fermati dalle autorità greche, come clandestini: interrogati dagli inquirenti, in luoghi diversi ed in lingue diverse, diedero versioni straordinariamente coincidenti dell'avvenuto naufragio. Fu così che venne allertato il centro di coordinamento del soccorso di Malta, il quale trasmise già dal 29 dicembre '96 la segnalazione di una probabile collisione alle autorità italiane, che fecero qualche modesto tentativo di ricerca impegnando due motovedette e un elicottero, nel tratto di mare sbagliato. Un paio di mesi dopo cominciarono ad essere avvistati in mare corpi compatibili con l'avvenuto naufragio, tenendo conto del tempo trascorso e delle correnti che battono il canale di Sicilia. La notizia rimbalzò tra gli amici e i parenti dei "clandestini", nei paesi di origine - India, Sri Lanka, Pakistan - e nei Paesi in cui erano attesi. Tra questi c'era l'Italia. Di fronte all'enormità dell'accaduto, l'omertà delle vittime del traffico - che consente ai trafficanti di agire indisturbati, speculando sulle leggi di chiusura - si ruppe: alcuni familiari delle vittime pakistane in particolare si recarono in Grecia e in Turchia, e ricostruirono a partire da lì, facendo un viaggio a ritroso, la catena dei trafficanti; ma anche i tamil e gli indiani si mobilitarono. Nel febbraio del '97 un giornalista inglese dell'Observer, che si era occupato della vicenda, scoprì per caso che una nave sequestrata a Reggio Calabria per traffico di clandestini era proprio la Yohan, la nave che aveva speronato il battello maltese: uno dei sopravvissuti pakistani, Shakur, identificò con certezza la nave, che recava tracce dello speronamento. Venne consegnato il dossier contenente il frutto delle indagini svolte e i nomi di svariate decine di persone coinvolte nel traffico di migranti asiatici e kurdi tra la Turchia, Malta, la Grecia e l'Italia, alla procura di Reggio Calabria, prima titolare dell'inchiesta, trasferita poi a Siracusa. Il Governo dell'epoca, pur se informato (ci fu un'interrogazione della senatrice Tana De Zulueta, c'era il dossier consegnato da Senzaconfine e dall'Associazione lavoratori pakistani in Italia oltre che alla Procura e al capo della Polizia Masone anche al sottosegretario Toia), non credette al naufragio, di cui continuò ad occuparsi soltanto "Il Manifesto", accontentandosi della versione delle autorità portuali che lo classificarono come "presunto".


Poi, nel giugno 2001, la "svolta": Repubblica, dopo aver taciuto per quattro anni, affitta un robot con telecamera di profondità e filma i resti del relitto, a 19 miglia dalla costa di Portopalo di Capopassero, in acque internazionali, a circa 100 metri di profondità. Orrore e meraviglia dei rappresentanti del centrosinistra di fronte al naufragio fantasma, di cui però all'epoca erano stati informati; un appello di quattro premi Nobel italiani viene lanciato per il recupero del relitto; vengono presentati anche due disegni di legge in tal senso, uno dei quali con la senatrice De Zulueta come prima firmataria. Ma non succede niente. Nel frattempo, in Pakistan, in India, nello Sri Lanka, negli altri Paesi della diaspora, i familiari aspettano ancora: le vedove non sono vedove, e gli orfani non sono orfani, come ama ricordarci il nostro amico Shabir Khan, presidente dell'Associazione lavoratori pakistani in Italia.


Ma se a sinistra si è voluto rimuovere l'imbarazzante vicenda, a destra c'è chi la sfrutta come arma contro Prodi (sic!), forse in vista delle elezioni europee o magari nelle prossime politiche italiane: ponendo in secondo piano i 283 morti, la questione si sposta sul vilipendio all'onore dei pescatori siciliani, accusati dal quotidiano "Repubblica" di omertà, mentre le colpe sarebbero da imputare esclusivamente al Governo di centrosinistra.


E arriviamo così a parlare di un senatore di Alleanza Nazionale, Francesco Bevilacqua, che ha presentato nel gennaio 2003 un nuovo progetto di legge, non per recuperare il relitto e i resti delle salme di coloro che erano chiusi nella stiva, ma per far piovere su Portopalo una pioggia di soldi pubblici, per la precisione 2.580.000 euro, pari a quasi 5 miliardi di vecchie lire, per costruire un monumento interreligioso a memoria di tutti i naufraghi e i caduti in mare, e per l'istituzione di un premio internazionale "in memoria delle vittime del sommergibile "Sebastiano Veniero", inabissatosi nelle coste antistanti Capo Passero negli anni '20 con un equipaggio composto da italiani, i cui resti si trovano all'interno del relitto in fondo al mare". E ci mancherebbe altro, spendere soldi italiani per tirar fuori dal mare corpi di clandestini? Che rimangano in fondo al canale di Sicilia, non a caso definito canale di Malta nel testo del disegno di legge, a voler marcare una distanza, "considerato che nel naufragio non risultano, a nessun livello, coinvolgimenti né di autorità, né di singoli cittadini italiani". Razzismo e ipocrisia si mischiano alle pelose motivazioni che ispirano l'attività legislativa dei promotori di questo disegno di legge, e cioè combattere contro la "utilizzazione demagogica della tragedia operata a danno della comunità marinara di Portopalo di Capo Passero e delle autorità italiane falsamente accusate di omertosa complicità e di inazione e rappresentate negativamente in prestigiose manifestazioni culturali (.)". Se Dino criticava con amarezza il centrosinistra dell'epoca per la sua mancanza di coraggio e per essersi allineato sulle posizioni europee di chiusura delle frontiere, non era certo per lodare chi - come i compagni di governo del senatore Bevilacqua - quelle frontiere le blinda ancora di più, facendo entrare solo chi si piega ai diktat del mercato e costringendo la maggioranza ai viaggi clandestini: la Bossi-Fini e la legge 30 come due facce di una stessa medaglia, peraltro con non poche contraddizioni, come dimostrato dall'impossibilità di rinnovare il permesso di soggiorno rilasciato con la sanatoria del centro-destra se si è in possesso di un contratto di collaborazione e non si è dipendenti.


E così, come Dino aveva previsto, quei poveri corpi rivestiti di "effimera carta" dallo scoop giornalistico stanno per essere definitivamente dimenticati. Oppure? Oppure la società civile, che in Italia e specialmente in Sicilia lotta contro la militarizzazione del territorio, per la smilitarizzazione e la riconversione per uso civile della base di Sigonella, per l'abolizione dei centri di permanenza temporanea, e che ha animato recentemente la carovana della pace culminata nella grande manifestazione del 20 marzo a Roma per il ritiro delle truppe dall'Iraq, saprà raccogliere la sfida che i parenti delle vittime ci chiedono da ormai più di sette anni? Sapremo noi, società civile, recuperare il relitto e restituire qualcosa su cui i familiari possano piangere? Sapremo fronteggiare chi ha interesse a dare un colpo di spugna su questa vicenda, salvo magari a utilizzarla strumentalmente in chissà quale futuribile contesto politico tra un'ottantina d'anni, come sta succedendo ai poveri marinai del "Veniero"? Soprattutto, sapremo dare il nostro piccolo contributo affinché le stragi del proibizionismo cessino oggi di verificarsi?


Alessia Montuori (Senzaconfine) - Alfonso Di Stefano (Attac-Catania)
Fonte: Terrelibere.it il 07-06-2004 - Categoria: Cronaca

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