In fondo al mare

Si può scomparire dentro milioni di metri cubi di acqua di mare. Si può scomparire senza che nessuno si accorga niente. E dimenticare trasformando una tragedia in dicerie di piazza.

La storia ha due nemici: il tempo e la disattenzione. Il tempo che seppellisce i ricordi, così bene da non riuscire a focalizzare gli eventi, i suoi personaggi, le sue verità e le sue bugie, fino ad ipotizzare che niente sia mai realmente accaduto. La disattenzione di chi quotidianamente si sveglia con un problema in più da risolvere per potersi dedicare a quelli degli altri.

E così, una strana coincidenza del destino, una data sciagurata che si ripete, un popolo che fugge da fame, guerre, maremoti e ipocrisie, ci riporta alla mente la tragedia di Portopalo di otto anni fa. 26 dicembre 1996 come 26 dicembre 2004. Cambia la scena: siamo in Sicilia, nel punto più estremo a sud d'Italia, dove lo Ionio s'incrocia con il Canale di Sicilia. I protagonisti sono gli stessi: il popolo asiatico, così tanto lontano ma anche così tanto vicino al destino dei circa 3000 abitanti di Portopalo, a sud di Siracusa, abituati a vivere di pesca e di un turismo in lenta espansione.

La cronaca del tempo, scarna ed appena accennata, ci racconta di una nave di clandestini asiatici affondata al largo della Sicilia meridionale. La nave, la Iohan, con un carico di uomini, donne e bambini provenienti dai posti più poveri del mondo, come l'India e il Pakistan, era salpata almeno tre mesi prima. Giunta nelle vicinanze della costa siciliana, aveva scaricato il suo carico umano su una imbarcazione di dimensioni ridotte, sulla quale avevano preso posto centinaia di persone. Il peso eccessivo del "carico" ed il mare in tempesta fece imbarcare acqua al piccolo battello. La Iohan provò ad intervenire per prestare soccorso, ma nella manovra di affiancamento, colpì la piccola imbarcazione, mandandola a picco.

Le storie e le leggende delle settimane successive alla tragedia del 26 dicembre 1996, s'intrecciano e si confondono da augurarsi che tutto rientri nei miti e nei racconti da bar dei pescatori locali. Gli stessi, che ripescarono nelle loro reti anatomia umana sminuzzata dai pesci e dalla indiffirenza.

Per settimane, furono ripescati cadaveri impigliati nelle reti tra reperti archeologici, plastica, metallo e qualche pesce. Si tratteneva il pescato e poi si ributtava a mare l'inutilizzato. Senza distinzione. Qualcuno, mosso da un senso d'umanità, aveva denunciato alle autorità queste "strane" sirene marine pescate al largo di Portopalo, ma il conseguente sequestro del peschereggio perdurato per mesi, aveva consigliato agli altri pescatori di continuare a ributtare la verità in mare.

A parlare di queste storie con la gente del posto, oggi, si rischia di fare la figura degli ingenui. Il pescatore con il volto scavato dal sale, mi racconta di un'inverosimile campagna pubblicitaria a scopo turistico, per fare di Portopalo un altro luogo di mistero. Un altro, più anziano, mi dice che di queste leggende, e sottolinea "leggende", qualcuno ha trovato pure il modo per farci dei soldi, scrivendo dei libri. Rimango esterrefatto per l'incredibile cultura letteraria dei pescatori moderni. Poi, accenno ad una provocazione. Chiedo: "E' vero che, una macelleria del posto espose il braccio di un morto, una mattina di qualche mese dopo la tragedia?" Il più giovane è il primo a sussurrare una risposta, che è una domanda: "Un braccio?" L'anziano lo interrompe, con presunzione: "Una testa era…" Capisco che la verità, a Portopalo, non è affogata insieme a quelle povere 283 anime, ma si nasconde bene per le strade del paese. Non faccio in tempo a rifletterci su, che i due pescatori mi lasciano intendere che mi sono spinto troppo in là. Faccio per andare e il più giovane mi congeda così: "Dottore, torna in estate a Portopalo, qui il mare è bello…ci sono i turisti…"

di Piero Buscemi, pubblicato il 10 febbraio 2005
Fonte: Girodivite.it il 10-02-2005 - Categoria: Cronaca

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