Il futuro dei giornali è digitale, ma senza cronisti non esiste

Il futuro dei giornali è digitale, ma senza cronisti non esiste di Pino Buongiorno

Vederli parlare fitto fitto, in un angolo del centro congressi del World economic forum, tra una sessione sui cambiamenti del clima e un'altra sul progressivo trasferimento del potere politico ed economico dall'Occidente all'Oriente, fa una certa impressione. Arthur Sulzberger jr ed Eric Schmidt sembrano due soci in affari piuttosto che i rappresentanti di due mondi destinati a combattersi fino all'ultima goccia d'inchiostro o, se preferite, all'ultimo pixel.

Il primo, 55 anni, è dal 1997 il presidente del gruppo New York Times: come dire l'architrave dei media tradizionali, che qualcuno proprio a Davos ha definito anche vecchi, se non addirittura moribondi. L'altro, 51 anni, è dal 2001 l'amministratore delegato di Google, il motore di ricerca che si è trasformato nell'epitome dei media digitali, quelli vincenti per antonomasia.

Sulzberger, attorniato dai suoi opinionisti di punta (tutti premi Pulitzer, da Thomas Friedman a Nicholas Kristof), ascolta in religioso silenzio Schmidt che anticipa nuovi prodotti rivoluzionari. Il capo di Google fa lo stesso quando interloquiscono i giornalisti del prestigioso quotidiano di New York. «Eric è un amico e anche un collega. Google è uno dei maggiori clienti del New York Times.

Così come noi lo siamo per loro. Dobbiamo adattarci al modo in cui la gente riceve le notizie. La mia missione è di portare i nostri superbi prodotti stampati in una piattaforma multimediale» confida l'erede di uno dei più nobili casati di editori americani, che prima di diventare presidente del gruppo ha fatto il cronista in una piccola città della Carolina del Nord e il corrispondente internazionale.

In questa intervista a Panorama Sulzberger sprizza ottimismo sul futuro del mondo di Gutenberg. Per essere più convincente l'editore del New York Times prende il suo telefonino Blackberry e mostra il sito del suo quotidiano adattato al video del cellulare. «Tutto questo è spettacolare. Non importa se oggi leggi il giornale su carta oppure al computer o addirittura lo vedi su questo piccolo schermo.

Quello che conta è il risultato che rende le voci dei miei opinionisti sempre più indispensabili e il New York Times ancora più potente. Se io dieci anni fa le avessi detto che avrei raddoppiato la diffusione del mio giornale di punta, lei avrebbe sorriso: ne avrebbe avuto anche motivo. Ebbene, noi abbiamo raddoppiato la diffusione del New York Times utilizzando tutte le possibili forme di media».

È da sfatare il mito che vuole in crisi gli editori?
Diciamo così: è un lavoro difficile, ma è sempre stato così. Forse oggi lo è un po' di più perché il mondo cambia così rapidamente. I soldi che noi ricaviamo dalla pubblicità del giornale tradizionale non sono quelli ai quali eravamo abituati. Ma c'è da aggiungere che la pubblicità digitale sta crescendo a un tasso del 30 per cento l'anno. Sì, siamo in una fase di transizione, con problemi finanziari, che stiamo cercando di affrontare, ma anche di tipo editoriale, per colpa di alcuni errori che abbiamo fatto. Guidarla è una sfida. Ma lo è non solo per me: è anche per lei, che fa il giornalista, e per tutti i nostri colleghi in tutto il mondo.

Uno dei dibattiti qui a Davos, ai quali lei ha partecipato, si è posto la domanda se il giornalismo sia destinato all'estinzione. Come ha risposto?
Il giornalismo non è morto. Anzi è più prezioso che mai. Noi viviamo in un mondo integrato, dove quello che accade in Iraq ha importanza in Italia così come è rilevante in Cina quello che succede in Germania. L'integrazione del mondo a livello economico richiede l'integrazione delle informazioni. Ecco perché il giornalismo è fondamentale come mai nella storia. La sfida è sostenere un certo livello di giornalismo vibrante e d'eccellenza così come il modello economico richiede.
Noi abbiamo creato un processo editoriale su scala globale che rende il nostro giornale internazionale. E andiamo orgogliosi di un altro primato. Quando l'esercito americano entrò a Baghdad, c'erano mille giornalisti di tutto il mondo in quel paese. L'anno scorso il numero è sceso a 75. Di questi, sette sono corrispondenti del New York Times.

Come pensa di cambiare nei prossimi anni il quotidiano liberal di Manhattan per affrontare questi tempi difficili?
La versione che si acquista in edicola sarà fondamentalmente quella che è ora. È un'impresa che fa soldi. Peraltro apportiamo sempre cambiamenti, aggiungiamo nuove sezioni, aumentiamo le riviste destinate al numero della domenica. Continueremo su questa strada. Le vere trasformazioni le dovremo fare sul web. Dobbiamo capirlo meglio. Dobbiamo farne un tutt'uno con l'edizione stampata e anche per questo abbiamo integrato le due redazioni, quella classica e quella digitale, sotto la guida del direttore Bill Keller.
Abbiamo creato dentro il New York Times anche un dipartimento per la ricerca e lo sviluppo che studia questo lavoro di integrazione e di creazione di una comunità digitale, così come funziona da oltre 150 anni quella che vive attorno al giornale più importante di New York. Su questo fronte si vedranno un sacco di novità. Già oggi siamo la nona azienda di internet nel mondo. Abbiamo scommesso sul nostro futuro digitale.

È così che pensate di recuperare i lettori più giovani?
La media dei nostri lettori non è mai cambiata nella nostra storia: 42 anni per l'edizione quotidiana, 45 per quella domenicale. Il che significa che conquistiamo sempre le nuove generazioni.

Ma non doveva essere il web a catturare i ventenni?
Sfatiamo anche qui un mito. Tutti noi pensiamo che internet sia lo strumento per eccellenza dei giovani. Non è vero. L'età media degli utenti è solo un po' più bassa di quelli che acquistano il giornale: 37 anni.

È ipotizzabile, magari fra dieci o vent'anni, che il «New York Times» possa essere pubblicato solo sul web?
Non lo so e non mi preoccupo. Non faccio questo tipo di profezie perché sicuramente sbaglierei. Noi stamperemo il quotidiano fin quando la gente andrà in edicola a comprarlo.

In che modo sta cambiando la nostra professione?
Quando io facevo il giovane reporter, nel 1974, vivevo in una fase di transizione dalla macchina per scrivere al primo computer. Perciò so bene cosa significa vivere in questi periodi di passaggio, che sono sempre difficili. Oggi il giornalista si trova nel bel mezzo di un'altra fase di transizione: dal computer al web, da una sola piattaforma alla multimedialità.

I blogger saranno i becchini dei giornalisti?
Lo sa cosa mi ha rivelato pochi minuti fa Eric Schmidt nel corso di un pranzo? Che la media della lettura di tutti i blog del mondo è 1, non 10 né 20, come tutti pensano. Il che significa che alcuni blog vengono visti e premiati, ma la maggior parte hanno zero visitatori. I giornalisti fanno un altro mestiere. Scrivono sulla base dei fatti, vanno in giro a raccogliere notizie, fanno telefonate...

Eppure, fenomeni come Youtube stanno a significare che tutti possono trasformarsi in testimoni del nostro tempo.
Non è vero. Non è così. Il nostro lavoro di editori e di giornalisti è quello di essere dei curatori, proprio come quelli che curano le mostre nei musei e scelgono i capolavori. Sui nostri siti e sui nostri giornali la gente deve poter trovare quello che si dovrebbe conoscere per prendere le decisioni che tengono viva la democrazia.

Negli anni scorsi il «New York Times» ha visto la sua credibilità messa in dubbio dai casi assai controversi di due giornalisti, Jayson Blair e Judith Miller, entrambi oggi fuori dalla redazione: il primo per i suoi falsi, la seconda dimessasi per i suoi articoli sulle fantomatiche armi di distruzione di massa in Iraq. Avete posto dei rimedi? E, se sì, quali?
Noi siamo una seria organizzazione di notizie, ma non siamo perfetti. Facciamo i nostri errori. Il lavoro mio e dei miei direttori è di riconoscerli in tempo, chiedere scusa, correggerli il più rapidamente possibile e andare avanti. Oggi ci sentiamo migliori di tre anni fa.
Fonte: Panorama.it il 10-02-2007 - Categoria: Internet

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