Foibe. "Fuga in Sicilia per tornare a vivere"

PORTOPALO - (luni) Un viaggio terribile di tre giorni e tre notti in una piccola imbarcazione di legno, per fuggire dalla Dalmazia e raggiungere le coste italiane. Era l'inverno del 1950 quando Antonio Gregori, che è venuto a mancare quattro anni fa dopo cinquant'anni spesi in Sicilia, decise di rischiare la fuga, raggiungendo fortunosamente le coste della Puglia. "E' stato per sfuggire alle ingiustizie imposte dalla legge comunista" racconta il figlio Emilio, in occasione della prima "Giornata del ricordo" delle vittime delle foibe che si celebra oggi. "Mio padre - prosegue - decise di andarsene dall'isola di Lagosta. Aveva intenzione di raggiungere l'Italia e proseguire per l'Australia. Ma poi si fermò in Sicilia. Ed è qui, a Portopalo di Capo Passero, che mise su famiglia dopo avere incontrato mia madre, Corradina Di Pasquale". Tutti lo hanno sempre conosciuto come "il triestino", in paese, sebbene la famiglia in realtà sia originaria della Dalmazia. Era Gergurovich, il loro cognome, ma durante il fascismo furono tenuti a "italianizzarlo" in Gregori. "Mio padre - racconta ancora Emilio - per anni ha chiesto che venisse svelata la vera entità delle stragi delle foibe. Ha scritto a giornalisti come Montanelli, ha contattato trasmissioni televisive popolari come quella condotta da Enzo Tortora, una ventina di anni fa. Ma non è stato ascoltato". E' una testimonianza toccante e di forte valore storico, quella offerta da Emilio Gregori a proposito della "vita avventurosa", come lui stesso la definisce, di suo padre Antonio, fuggito dalla Dalmazia per arrivare in Sicilia, dove due anni prima già suo padre si era rifugiato e svolgeva il lavoro di fanalista sull'isola di Capo Passero. Una testimonianza, quella offerta dalla famiglia Gregori, così come da tante altre persone, che richiama alla memoria una vicenda tragica e poco conosciuta, per la quale è stata istituita l'anno scorso la "Giornata del ricordo" delle vittime delle foibe. Furono infatti almeno 10 mila, le vittime della repressione operata dal generale Tito fra il 1943 e il 1945: una strage di cui si è parlato sempre poco. E che "è durata ancora oltre il 1945 - afferma inoltre Gregori -, anche se con intensità e violenza minore". Già subito dopo la guerra, Antonio Gregori ritorna a Lagosta e trova solo disperazione e morte: la madre Giovanna e la sorella Dosi ai lavori forzati, torturate; il padre esule in Italia. "Sono situazioni estreme - spiega il figlio di Gregori - che oggi è molto difficile riuscire a comprendere.

Mio padre, che pure era stato ufficiale durante la guerra, non pot‚ mai accettare le violenze gratuite e i soprusi operati dal regime. Scelse di scappare, scelse la speranza di una vita migliore". Non meno toccante la testimonianza di vita di Tommaso Faraguna, classe 1920, pachinese di adozione ormai dal 1963, oggi residente nella frazione di Marzamemi: originario di Albona, nell'Istria, racconta la sua storia di giovanissima recluta nell'esercito fascista, durante il secondo conflitto mondiale e fino al 1943. "Facevo la staffetta porta ordini - racconta con vivacità, come se si trattasse di eventi molto vicini nel tempo -, alla vigilia dello sbarco degli alleati. Il nostro comando si trovava in contrada Cozzi, qui a Pachino, dove adesso c'è l'ospedale. Dopo lo sbarco alleato del luglio '43 fui fatto prigioniero. Ricordo ancora sulla spiaggia della Spinazza il recinto che preparato dagli anglo-americani per rinchiudere i prigionieri". Ma arriva più tardi, per Tommaso, la vera tragedia personale, ancora del tutto vivida nel suo ricordo. "Quando sono tornato a casa, dopo due anni di prigionia ad Alessandria d'Egitto - ricorda - , il mio paese natio, Albona, in provincia di Pola, era tutto diverso. Ero rimasto solo: tutti morti, uccisi, oppure scappati come esuli all'estero. Un'emorragia inarrestabile. Mi sentivo come un povero pazzo". E racconta, nell'immediato dopoguerra, di una vita difficilissima, trascorsa a lavorare nelle miniere di Pozzo littorio, create da Mussolini, in prossimità di Albona. Un lavoro per il quale Tommaso riceve ancora oggi una minima pensione: 117 euro al mese. "Ma nel mio paese non avevamo più possibilità di sopravvivere - racconta ancora -: la mattina dovevamo alzarci alle quattro per andare, con la tessera, a prendere il pane. E quante volte è successo che dopo aver fatto una lunghissima fila ci hanno detto che il pane era finito! Ho resistito finch‚ è stato possibile - conclude Tommaso, che si è sposato con una pachinese, Grazia Pitino -, poi nel '63 sono venuto a stare in Italia". Anche per lui, l'Italia e quindi la Sicilia sono state il "miraggio" e la speranza di una vita migliore.

Luisa Nitti
Fonte: GDS.it il 11-02-2005 - Categoria: Cronaca

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