Dopo il vino e l'olio arrivano i Pomodori Doc

Un vero ciclo hegeliano, quello del pomodoro. In principio, portato in Italia dal Nuovo Mondo come pianta ornamentale sospettabile (per la parentela con le solanacee), stentò a conquistare fiducia e palati, al punto da essere niente più che una comparsa nei ricettari del '700, Napoli compresa. Poi il successo: dal dilagare delle pummarole rassicuranti e pop agli “yuppissimi” pomodorini, compagni inseparabili di Lady Rughetta. Adesso, addirittura la sintesi edonistica, la riflessione sul gusto, secondo la moda corrente dell'esplorazione di un sapore o di un prodotto in tutte le sue declinazioni. La novità viene infatti dalla Sicilia, palcoscenico di una “Tomato Conference” che ha riunito a Scicli nel Ragusano esperti di ogni parte del mondo. Un vero e proprio diluvio di pomodori e di chiacchiere, di riflessioni economiche e di ermeneutica della panzanella.
Tema portante, rivalutare il consumo di questo ortaggio a partire dalle sue grandi varietà di sapori, al di fuori della scontata iconografia mediterranea tutta pomodorini maledettamente uguali. Così è saltato fuori persino un modello para-scientifico, reso grafico in forma di esagono, con parametri quali dolcezza, sapidità, farinosità, croccantezza, acidità, fruttuosità. La figura perfetta forse va chiesta all'ombra sapiente di Euclide, ma qualche idea ne viene fuori.

Ad esempio che il ligure cuore di bue o il Salvatore, giusta acidità e senza semi, sono il top per una caprese, mentre l'Eugenia o il riccio bolognese, equilibrati tra sapidità e acidità, sono il meglio per il classico spaghetto. Il Piccadilly, con la sua struttura acquosa e dissetante, è «grandioso su una pasta fredda», giura Constance, una delle più seducenti chef a Montrachet, «ma non va sottovalutato il Tyty, che si presta benissimo a gelatine per accompagnare i formaggi». Momenti di gloria anche per l'Ikram, giusto accompagnamento neutro per piatti a base di pesce, o per il Dunè, talmente dolce da prestarsi a far da solo antipasto. Poi, tutti i riflettori sul Pachino, star siciliana della pomodorità fatta successo, celebrato nelle ricette del bravissimo Ciccio Sultano che esercita il suo talento dietro il Duomo di Ragusa.
«Fatta l'Italia bisogna fare gli italiani», diceva Cavour. Allo stesso modo, preso atto della complessità di sapori che si nasconde in un semplice pomodoro, bisogna sradicare i consumatori dalla loro pigrizia, non meno che da inauspicate fedeltà al gusto di sempre. Da noi è una partita che si può giocare, visto che l'Italia, sesto produttore mondiale (con 6,5 milioni di tonnellate, contro le 30 della Cina, le 12 degli Usa, o le 8 della Turchia), è però il paese che coltiva il maggior numero di varietà di pomodori. La varietà al servizio del gusto, insomma, che è poi la stessa cosa della fantasia al servizio del piacere.

di GIACOMO A. DENTE
Fonte: Il Messaggero il 19-07-2005 - Categoria: Economia

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