Così lontani dall'Oscar così vicini al cuore

MARZAMEMI - America latina, Africa, Asia, Europa. L'enorme, semovente, irregolare quadrilatero di celluloide del VI Festival del Cinema di Frontiera si chiude oggi, con l'ultimo film in concorso internazionale, il cinese La guerra dei fiori rossi di Zhang Yuan - seguito da Lettere al vento dell'albanese Budina, stasera ospite e premiato - benché la kermesse si concluda effettivamente domani, con la premiazione del film e del cortometraggio e la consegna del premio Dolceria Bonaiuto a Donatella Finocchiaro, in piazza Regina Margherita mentre il pomeriggio pachinese riserva gli ultimi due titoli della rassegna cinematografica dedicata all'Albania. E si tiene ben al riparo da passerelle, “vipperie” e importazioni dell'ultima ora, il Festival diretto da Correale e i complici di sempre, Turi Pintaldi e Sebastiano Gesù, quest'ultimo curatore del ponderoso volume La terra trema, che si presenta oggi alle “Chiacchiere sotto il fico”. Per una volta non è il cinema a farne le spese ma semmai a spendersi in toto in una scelta quantitativamente stimolante e qualitativamente inoppugnabile.

E restiamo, per ragioni di spazio, nella cinquina dei film in concorso internazionale - a cui peraltro si è accompagnato un sapido “contorno”, ogni giorno fino a notte alta, dal film musicale (oggi Bob Marley) ai documentari (oggi Herzog e Mingozzi) - di cui fa parte La guerra dei fiori rossi ovvero i dolori del piccolo Qiang, relegato in uno di quegli squallidi asili statali “necessari” perché i genitori dei bambini potessero dedicarsi con più impegno alla rivoluzione socialista. I fiori rossi sono fiori di carta velina che le maestre regalano a fine giornata ai bambini piu' meritevoli: uno dei modi per guadagnarseli è addirittura quello di «espellere, ogni giorno, la giusta quantità di escrementi». L'altro pezzo di Asia «gialla» è stato Il cane giallo della Mongolia, sorta documentario per dialoghi della regista Davaa, spaccato di vita e cultura nomade in cui si percepisce appena il “moderno” che vive accanto. Altra chance per sapere del popolo dimenticato in un paese sconosciuto che non si pensa possa essere tanto vicino a Buenos Aires e cioè la Patagonia, è stato Bombon el perro di Carlos Sorin, in cui un cane un po' troppo bello (da corsa e da combattimento) è speranza di sbarcare il lunario e di rifarsi un'identità. Ed è cinema-cinema quello di Tsotsi di Gavin Hood, vero linguaggio cinematografico che colpisce i punti cardini del racconto per immagini, di sentimenti senza parole, di vicende di soli movimenti e sguardi, girato a Soweto con attori non professionisti (grandezza del cinema, render giustizia al prim'attore e dare consapevolezza a chi non sa d'avere talento) e di fortissima tenuta drammatica pur non essendo un thriller. Un probabile candidato alla vittoria da cui potrebbe tenerlo lontano il fatto d'essere già Oscar come migliore film straniero ma straniero, ancora, alla maggior parte delle platee.

Carmelita Celi
Fonte: LaSicilia.it il 29-07-2006 - Categoria: Cultura e spettacolo

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