Consegnati i premi del Brancati-Zafferana

ZAFFERANA ETNEA - Gran Galà. E adesso si pensa alle tappe dell'anno brancatiano che toccherà Pachino, Siracusa, Catania e Marzamemi. Ieri sera Luciano Rispoli ha presentato il gran galà di premiazione per i vincitori della trentacinquesima edizione del Premio letterario Brancati Zafferana, promosso dal Comune di Zafferana in collaborazione con l'Università degli studi di Catania, patrocinato dalla Provincia regionale di Catania e dalla Regione Siciliana. «Un'edizione speciale - come ha sottolineato il sindaco Delfo Patanè - fatta nel nome di Brancati di cui ha celebrato il cinquantenario della scomparsa, nonchè nastro di partenza dell'anno Brancatiano che si snoderà nei luoghi in cui lo scrittore ha lasciato tracce indelebili della sua presenza: Pachino, Siracusa, Catania e Marzamemi». Ringraziamenti sono stati rivolti al presidente della Regione, al presidente della Provincia regionale di Catania al rettore dell'Università di Catania e a quanti hanno contribuito alla perfetta riuscita del Premio nato Zafferana e per il quale «auspica che possa diventare presto Fondazione , perseguendo e condividendo la proposta in tal senso portata avanti dalla precedente amministrazione guidata da Giuseppe Leonardi». Applausi ad Anna Proclemer e Antonia Brancati presenti in sala.

Tra un momento musicale e l'altro scanditi dalla voce possente del soprano Piera Bivona, accompagnata al pianoforte dal maestro Santo Russo, sono stati chiamati sul palco e insigniti del Premio: Anna Tonelli per la saggistica con « Politica e amore « (Il mulino) «perchè con chiarezza , analisi attenta e ricchezza di documenti ha ricostruito gli anni del dopoguerra dal 40 al 70"; per la poesia Antonio Riccardi con «Gli impianti del dovere e della guerra» (Garzanti), perchè «Libro di vibrante energia di toccante forza comunicativa «per la narrativa Andrea Canobbio con «Il naturale disordine delle cose"(Einaudi) perchè «libro di grande precisione e sottigliezza narrativa ....in cui l'autore è affascinato dalla concatenazione dei fatti e dallo scatto delle immagini». Le motivazioni dei premi per esteso sono state lette da Salvatore Scalia, Antonio Di Mauro e Giorgio Ficara che assieme a Stefano Giovanardi, Maurizio Cucchi, Piero Isgrò hanno costituito la prestigiosa giuria tecnica del Premio. Presenti anche i componenti del comitato organizzatore del «Brancati -Zafferana e l'assessore alla cultura Ata Pappalardo. L'assessore provinciale alle politiche culturali Gesualdo Campo, tra le altre cose, ha detto che il Premio Brancati Zafferana è stato «significativo punto di partenza di una serie di celebrazioni che si snoderanno per un anno intero(anno brancatiano) e si concluderanno nella cittadina etnea con la 36 edizione dello stesso Premio».

Enza Barbagallo
Fonte: LaSicilia.it il 27-09-2004 - Categoria: Cultura e spettacolo

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La Sicilia del 24/09/2004
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Quando al premio Brancati contestammo Moravia e Pasolini


Zafferana Etnea settembre 1969 - Il ragionamento di massima era questo: se tutto il mondo della cultura ufficiale apparteneva già alla sinistra e andava sempre più in quella direzione, come un movimento di rottura con il sistema poteva venire ancora da sinistra? La contestazione esisteva e nessuno poteva negarla; a farla erano i figli ribelli della borghesia, ma si trattava sempre di figli della stessa famiglia. Una vera contestazione non poteva quindi che venire da chi si sentiva fuori da ogni logica di potere, da chi prospettava una società con valori completamente diversi, insomma da noi ragazzi della destra neofascista.
Se i compagni lanciavano uova contro le signore impellicciate davanti ai teatri, ci sembrò necessario, per differenziarci, dare l'assalto a qualcosa che rappresentasse quella cultura di sinistra che spadroneggiava nel paese.
L'occasione si presentò su un piatto d'argento. A Zafferana, paesino montano etneo, in settembre, si svolgeva il premio letterario chiamato per l'appunto "Brancati - Zafferana". A presiedere la giuria furono invitati i tre più importanti scrittori del momento: Pasolini, Moravia, e la sua nuova compagna Dacia Maraini, che aveva sostituito la Morante.
Sin dall'inizio della manifestazione, però, i tre mostri sacri della cultura ebbero da ridire sulla nomina dei giurati popolari. Secondo Pasolini, in quel momento innamorato della sua stessa retorica, i giurati sarebbero dovuti essere selezionati solo tra pecorai e contadini.
Non a causa di queste dichiarazioni con cui si erano aperte le cronache giornalistiche, ma per consolidata antipatia verso Moravia, di cui qualcuno dei nostri aveva letto i racconti, e verso Pasolini, da noi conosciuto più che altro per il cinema, partimmo dal Guf ,con macchine e motociclette, alla volta di Zafferana con l'intenzione chiara di far casino. Riempimmo una sala semivuota, eravamo una ventina. Sedemmo in silenzio per capire l'andazzo.
I tre giurati eccellenti avevano già deciso di assegnare il premio a Michele Pantaleone per il libro "Antimafia, occasione perduta"e lo dichiararono apertamente. Alcuni dei giurati popolari confessarono di non averlo nemmeno letto. L'atteggiamento di Moravia divenne nervoso e "sfastidiato". Tra l'altro, disse di non riconoscere il carattere popolare di quella giuria che per giunta si era permessa di obiettare sulla scelta operata.
Quando aprirono il "libero dibattito", prese la parola Alessandro Bertolani, il più preparato del nostro gruppo. Dopo un'apertura sulla prevaricazione dei presidenti e sull'erotismo volgare nella poesia della stessa Maraini dal titolo "Ti orinerò sulle mani", focalizzò il suo pensiero parlando di arte e valori nel pensiero romantico europeo, alla fine, pose, proprio a Moravia, una domanda sul concetto di libertà intellettuale.
Moravia, scuro in volto, si alzò e disse: - Non le rispondo, lei è un fascista, vada fuori! - A quel punto cominciò la contestazione con urli, insulti e lancio di finocchi (a posto delle uova) contro i giurati e più particolarmente contro Pasolini per la sua dichiarata omosessualità. Successe un finimondo con spintoni e sedie fracassate. Poi lasciammo la sala del primo piano e scendemmo giù all'ingresso del palazzo per aspettare l'uscita e continuare a fischiare, ma dopo pochi minuti, all'improvviso, vedemmo arrivare con chiare intenzioni bellicose un nutrito gruppo di Zafferanesi incolleriti.
Qualcuno era corso nella piazza del paese e aveva sparso la voce che dei catanesi avevano protestato violentemente perché volevano portare a Catania il premio Brancati. Nel giro di pochi minuti si era raccolto mezzo paese per vendicare il grave affronto. A nulla valse il tentativo di spiegare la nostra presenza "politica", né bastarono i volantini che avevamo distribuito in sala. Eravamo degli estranei e questo bastava. Una scazzottatura generale, all'antica, senza armi improprie come erano chiamati bastoni e varie, concluse la nostra spedizione contestataria a Zafferana.
Anche se ci descrissero come teppisti, i giornali locali furono costretti a riportare il comportamento assurdo di quei giurati che consideravano il rapporto con la Sicilia interessante solo in una prospettiva utopicamente neorealista, anzi più surrealista che neorealista, con una giuria immaginaria di contadini e zappatori, ignoranti ma puri, ai quali si sarebbe dovuto leggere ad alta voce i libri in concorso. D'altronde così era la moda e così snob era ogni intellettuale che si rispettasse nei salotti buoni della cultura italiana e, in fine, così eravamo noi giovani di destra, alla fine degli anni Sessanta.
Francesco Rovella






La Sicilia del 24/09/2004
Terza pagina

Duce, vorrei dirigere il «Popolo di Sicilia»


Salvatore Scalia
Che fa un padre che si ritrova a casa il figlio quasi trentenne sfiduciato e annoiato? Che fa se un giovane tanto promettente lascia Roma, il bel mondo, un posto privilegiato in un giornale nazionale e torna a Catania, verso un'esistenza neghittosa e senza entusiasmi? Che fa se la delusione prende il sopravvento? Tormenta, sprona, pressa. Se nel giornale catanese di regime "Il Popolo di Sicilia" cacciano il direttore, incita il figlio a muoversi per ottenere quella poltrona prestigiosa. Gli ricorda che Mussolini l'ha ricevuto, che ha apprezzato il suo dramma "Everest", definito dal direttore del "Tevere" Telesio Interlandi nella prefazione "il primo felice tentativo di rendere drammatico il senso eroico dell'azione mussoliniana"; gli suggerisce di rivolgersi al fraterno amico Ciccio Anfuso fratello di Filippo, il collaboratore più stretto di Galeazzo Ciano fresco ministro degli Esteri e genero del Duce.
E allora il figlio, pur sapendo che non serve a nulla, scrive una lettera a Mussolini e ne invia una copia all'amico Ciccio, pregandolo di far intercedere il fratello presso Sua Eccellenza Ciano.
Tutto ciò "ad… tacitandum patrem", a dimostrare all'assillante genitore che non tralascia occasione per sistemarsi.
In realtà con il regime, Brancati, che si era sentito fascista "fin nella radice dei capelli", aveva avuto disavventure che ne avevano mortificato aspirazioni e sensibilità. A cominciare dalla visita al Duce a Palazzo Venezia il 16 giugno del 1931. Nel resoconto dello scrittore, pubblicato prima su "Critica fascista" di Bottai e poi sul "Tevere" e sul "Popolo di Sicilia", nel traboccante entusiasmo per il Titano s'inseriscono un atto mancato e un offensivo qui pro quo. Nel progredire del racconto si perdono le tracce della copia speciale di "Everest" portata da Catania al Duce. Mussolini dimostra o finge di conoscere il testo, ma poi chiede se sia rappresentabile. "All'aperto", risponde Brancati. E ciò appare surreale se pensiamo che una nota avvertiva essere stato il dramma rappresentato il 5 giugno 1930 nel Salone Margherita dalla Compagnia dei giovani.
Andò peggio con "Piave", nel 1932, il dramma manipolato dal Duce in persona e persino da Anton Giulio Bragaglia che lo mise in scena. Finì tra i fischi. Poi nel '34 Brancati, caporedattore della rivista "Quadrivio" fondata e diretta dall'onnipresente Interlandi, dovette subire lo smacco di vedersi stroncato per immoralità, dal vice direttore Luigi Chiarini, il romanzo breve "Singolare avventura di viaggio".
Nella lettera al Duce lo scrittore elenca le sue esperienze professionali ma, forse perché gli brucia ancora, tralascia di ricordare l'incontro. Promette, come si ripete sempre nelle redazioni siciliane, di fare un quotidiano che non sia la brutta copia dei giornali nazionali, ma qualcosa di "inconfondibile e vivo".
Perché il Duce gli presti attenzione, prega l'amico Ciccio di far muovere il fratello Filippo. E sarà quest'ultimo uno dei fantasmi più tenaci di cui Brancati, divenuto antifascista, stenterà a liberarsi. Per il Duce e il suo ex protettore Interlandi non aveva dovuto penare. Il suo ex direttore si era messo fuori gioco da sé con la direzione della rivista antisemita "La difesa della razza", nata nel '38 dopo la promulgazione delle leggi razziali. Ma Filippo Anfuso? Il diplomatico elegante, intelligente, spiritoso, affascinante? L'uomo nuovo che nella sua irresistibile ascesa non aveva sbagliato una mossa? Anche se nel settembre del '43 aveva scelto Mussolini, "Duce, con Voi sino alla morte!", divenendo ambasciatore della Repubblica di Salò a Berlino, restavano l'amicizia, gli intimi legami familiari, la stima, persino l'invidia dell'uomo gracile per l'uomo bello e amato dalle donne.
L'elaborazione del distacco sarà faticosa, contrastata. Nel febbraio del '47, quando Anfuso è in carcere in Francia con l'accusa infondata di essere mandante dell'assassinio dei fratelli Rosselli, Brancati va dal notaio e firma una dichiarazione a favore dell'ex diplomatico: ha accettato di diventare ambasciatore a Berlino per aiutare gli italiani internati dopo l'otto settembre '43. Il debito d'amicizia poteva dirsi soddisfatto. Ma quando uscirà "Il bell'Antonio" nel '49, i catanesi riconosceranno nel protagonista sia Ciccio, funzionario del ministero degli Esteri, sia Filippo Anfuso. Troppi elementi rimandano però all'ambasciatore: il bel volto olivastro, il successo con le donne, l'amicizia con il conte Ciano. Come non pensare che Salvemini l'aveva definito il fratello siamese di Ciano? Ma non era un vendetta meschina, un volgare ribaltamento della virilità nell'impotenza. Le frecciate all'amico semmai vengono da ciò che il Bell'Antonio non è, ovvero un carrierista dal cuore ammaestrato ad amare solo le donne influenti e a divenire amico di uomini potenti. Il romanzo sarà un riscatto, perché la malattia di cui soffre il protagonista è il vecchio angelismo decadente dei personaggi di Fogazzaro o dell'Emilio Brentani di "Senilità" di Svevo, temperato dal grottesco e dall'ironia. Attraverso il mito letterario, Brancati rinnega la materialità grossolana e la carnalità nauseante del fascismo. Si vendica dell'esaltazione del priapismo descritto da Gadda e restituisce all'amore una dimensione spirituale.
La Sicilia del 27 settembre


(prima pagina)grazie per il contributo

La polemica - Brancati l'orticello violato - di Salvatore Scalia Passata l'ubriacatura fascista, ripudiata la volgarità dell'era di Mussolini, Vitaliano Brancati sognava un mondo della cortesia, del confronto civile e dell'amicizia. Aveva scontato sulla sua pelle l'essere stato fascista fin nella radice dei capelli, aveva bevuto fino in fondo il calice amaro della dittatura che costringe persino gli uomini migliori a umiliarsi. Provava vergogna per i suoi simili mutati in marionette, pronti a dire sempre non capisco ma mi adeguo. Se gli avessimo mostrato la lettera che nel 1936 aveva scritto al Duce per chiedergli di essere nominato direttore del giornale fascista di Catania «Il Popolo di Sicilia», ne avrebbe sorriso con malinconia, avrebbe ricordato, come scrisse in un'altra lettera coeva all'amico Ciccio Anfuso, che era stato costretto dalle circostanze, dalle insistenze paterne, dal periodo di smarrimento che stava vivendo dopo aver abbandonato, per la nausea, una promettente carriera a Roma. E poi magari avrebbe ricordato i due amici, Ciccio e Filippo Anfuso. Dal secondo sperava che lo raccomandasse presso il ministro degli Esteri Ciano. Le due lettere pubblicate sulla «Sicilia» di venerdì costituiscono due documenti storici. E qui cominciano i problemi: livori, rivolte di indignati speciali, di custodi della letteratura patria. Una profanazione! Tanto che le due vestali della memoria dello scrittore, la moglie Anna Proclemer, e la figlia Antonia, sabato hanno abbandonato indignate la sala di Zafferana Etnea, in cui chi scrive raccontava le vite parallele dei due più prestigiosi uomini nuovi del fascismo catanese: lo scrittore e Filippo Anfuso. Il primo presto deluso, il secondo visse fino in fondo la dannazione della tirannia, divenendo ambasciatore a Berlino della Repubblica di Salò. Per le due signore passi... I legami della memoria risiedono in un sacrario speciale sbarrato agli estranei e ostile a chi insinua dubbi. Ma che un accademico s'indigni, è perlomeno poco scientifico. Oppure si tratta di orticelli violati?
TORNA A CASA VITALIANO


Lettera aperta allo scrittore Vitaliano Brancati: pachinese Caro Vitaliano, come vedi è dura. Ma i grandi, si sà, anche da morti e sepolti creano polemiche e discussioni senza fine. Irriguardosi e perfidi personaggi hanno fatto si che le persone a te più care, Tua moglie Anna e la tua cara figliola Antonia, hanno dovuto abbandonare, sdegnate ed offese, questa manifestazione che porta il tuo nome a Zafferana Etnea di Catania. Le polemiche create hanno una storia lunga, ma che hanno perno nel ricordo e nella memoria, come puoi leggere negli articoli che qui sotto ho raccolto per i lettori di Pachino. In questo lavoro mi ha aiutato anche un amico che non ha capito il senso profondo che tu dai a cosa significa gentilezza e tolleranza e rispetto delle diverse posizioni. Vive male la cosa, purtroppo. La vive come beffeggio alle persone sensibili che esprimono un sentimento proprio. La vive come cosa, intollerabile e inconcepibile che ci possa essere qualcuno che attraverso la sua mente, la sua memoria, i suoi affetti, le sue passioni più profonde possa, anche a distanza, interessarsi e interrogarsi su Pachino. Sulla sua gente, sulle cose che lo legano indissolubilmente alla sua terra, ai sui profumi, ai suoi odori alle sue puzze, se vuoi. Cercando di umiliare, schernire, beffeggiare, irriguardosamente questo sentimento. Offendendo chi ha questi sentimenti che ognuno di noi, che come te, nati a Pachino, vivono questa dimensione profonda di appartenenti ad una comunità che è ampia dispersa ed in giro per il mondo.La quale,ha, ed avrà, sempre come faro questo lembo e triangolo di terra bagnato dai due mari. La terra del Pachino che, molto probabilmente, fù’ visitata e toccata, nel suo peregrinare, nel bacino del mediterraneo, dal prode Ulisse. Il quale come ogni uomo, che per motivi diversi è stato fuori dal suo particolare e assoluto nido, anela ed aspira, profondamente, a tornare nella sua terra natia. Pensiero nobile, alto, ambito, ma assolutamente sincero ed intoccabile. Ma che è nel suo profondo non comprensibile, non capito, ed inconcepibile da chi vive stabilmente ed abitualmente a Pachino. Ma, fortunatamente, questo pensiero blasfemo, irriguardoso, sostanzialmente offensivo vive solo nella mente dei più "asini", ma anche, purtroppo in coloro che per ragioni assai basse e vergognose in coloro che hanno nel loro misogino e piccolo orticello un piccolo progetto di elevazione sociale.E che vedono magari in pericolo per l'azione di una forza esterna che potrebbe mandargli all’aria i loro piccoli progetti.Non tenendo conto che il mondo è vasto e vario e che vedendo in pericolo questa piccola possibilità di successo si chiudono a riccio e respingono con strumenti assai meschini qualsiasi rinnovamento ed evoluzione. Quelli che, come il farmacista, che tu conoscevi bene, osteggiava nella musica tuo cugino Saverio Ciavola. Ma che poi sono gli stessi che davanti ad un Leopardi erano capaci, e lo sono ancora, di storcere il naso e dire con somma sapienza: ma veramente poteva dare di più, di più, qualcosina di più questo Leopardi. E avevi ragione quando dicevi che i pachinesi sono tutti artisti e vocati all'arte: ricordi? lo scrivevi a proposito di Francesco Maria Lanteri che quando tornava da Catania dal dosso dei Cozzi scorgeva il profilo questo paese, semplice, semplice che sembrava come un disegno fatto da un bambino alla lavagna. Composto da semplici aste. E, amorevolmente, ti chiedevi chissà quando verrà e ci sarà un Architetto ( che io configuro in una amministrazione pubblica) che sarà capace di renderla bella, accogliente, presentabile eclettica agli occhi dei visitatori e dei suoi abitanti. Lo sai li capisco perché non ti possono capire in quello a cui alludevi. Troppo presi, a volte, a sopravvivere alla bisogna per la lotta dura che devono affrontare in ogni cosa. Anche per ottenere le cose più semplice: come può essere l'acqua. Per il vento continuano a gridare per farsi sentire e spesso la loro voce e volontà è frastornata e delusa. E, ritornando a quelli che oggi non ci vivono, come ha ricordato un tuo alunno, un certo Sciascia Leonardo, che hai conosciuto quando eri il suo maestro:molto ironicamente, ma con una punta di affilato sarcasmo ha descritto i siciliani come gente vocata all'avventura e per spirito di vagabondaggio, in noi innato, e ha descritto che di fatto le emigrazioni, che a partire dai primo del novecento hanno interessato l'Italia e la Sicilia, sono solo state delle invenzioni da parte degli storici. E semmai dettate, solo ed esclusivamente, da questa innata essenza di giramondo di noi siciliani. E per questo che propongo alla nostra gente, alle banche, alle cooperative, alla nostra amministrazione pubblica di Pachino che faccia di più, di più, di quello che ha fatto fino ad ora. Magari istituendo a Pachino una fondazione con l’obiettivo di promuovere, la tolleranza,la gentilezza, la cultura dell' accettazione delle diverse opinioni e pensieri di cui sei sommo portatore. Al fine, che essa possa essere tratto indelebile e distintivo della cultura dei vecchi e dei giovani pachinesi. E realizzando un concorso internazionale di poesia, di letteratura, del cinema, e per dedicarti, come meriti, un monumento, una statua, un qualcosa di visibile che ti faccia ritornare, materialmente e definitivamente a casa!
Tuo affezionato lettore.
Cordiali Saluti.Spiros